-276 giorni alla Notte degli Oscar
Io non seguo il Festival di Sanremo. Tra le altre cose, trovo che appiattisca il panorama musicale italiano anche più della caccia al tormentone estivo (che però almeno non ha pretese di “nobiltà”) e penso che da un punto di vista di produzione televisiva sia terribile, sicuramente inadatto al livello che dovrebbe avere uno dei momenti più importanti del nostro palinsesto. Sono lamentele che esprimo pubblicamente poco e solo quando siamo lontani dalle serate dell’evento, per il semplice fatto che peggio del Festival di Sanremo c’è solo chi grida al mondo che non guarda il Festival di Sanremo.
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Al di là delle mie posizioni però, rimango una persona curiosa e ho sempre le antenne alzate, senza contare che durante i giorni del Festival di Sanremo è sostanzialmente impossibile ignorarlo. Quest’anno durante la prima serata ero a fare una cena in una baita isolata tra le Alpi, raggiungibile solamente con i gatti delle nevi e con pochissimo campo eppure, qualcuno è comunque riuscito a seguire la diretta. E così lungo tutta la settimana ho comunque saputo degli exploit di Topo Gigio, Luca Ravenna e Fru, dell’ossessione di Carlo Conti per stare nei tempi televisivi, del “Si 'na pret” a Rose Villain e tutto quello che è successo. Comprese ovviamente le teorie del complotto intorno a Marta Donà.
Per chi fosse riuscito a schivare questo dibattito, quest’ultima è la manager di Olly, vincitore di Sanremo 2025. Non solo, ma ha in scuderia anche Angelina Mango e Marco Mengoni, trionfatori rispettivamente nel 2024 e nel 2023. E anche se adesso non sono più con lei, era anche la manager dei Måneskin nel 2021, l’anno in cui conquistarono Sanremo, l’Eurovision e il Saturday Night Live (indubbiamente il traguardo più importante dei tre). Io non so se Marta Donà abbia avuto davvero un ruolo in tutte queste vittorie, ma “come Dio, non gioco ai dadi, e non credo nelle coincidenze”. Anche perché in anni e anni di Oscar, ho imparato quanto siano importanti figure come questa.
Prima, durante e dopo
Potrei stare ore a discutere su quanto la figura del produttore, del manager, dell’agente sia stata ingiustamente contrapposta a quella dell’artista in innumerevoli opere dagli anni ‘80 a oggi. Fusi di Testa, This is Spinal Tap, ma pure Amadeus e 8½ se vogliamo. Il discorso è sempre lo stesso: l’arido businessmen che pensa solamente ai soldi che tarpa le ali all’artista, facendogli svendere la sua arte, rendendola un prodotto commerciale e vuoto. Un trope che per qualche ragione non ha fatto perdere la fiducia nell’avere i miliardari in politica, ma ha convinto tutti che i produttori e simili non lavorino a favore del film, ma siano degli antagonisti, da sconfiggere e ingannare per ottenere un buon risultato. E sia chiaro, ci sono delle volte in cui fanno dei danni micidiali, ma ci sono altre in cui la loro poca incisività è stato il danno micidiale.
Il loro contributo è importantissimo e parte molto prima che si accenda la prima luce del set. Il primo passo infatti è riconoscere il potenziale di un film, quando ancora non esiste, quando è solamente un’idea nella testa di qualcuno. In molti casi, non c’è neanche una vera sceneggiatura su basare la valutazione, perché è ancora tutta da scrivere. Scovare un progetto del genere, scegliere le persone giuste per farlo sviluppare, dare loro il giusto supporto è un compito complesso che ha un valore sul piano artistico.
Anche quando arriva il momento delle riprese, il lavoro del produttore rimane importante. Come dicevo, non lavora in opposizione al regista e al cast, ma li aiuta a incanalare la loro visione per poter ottenere il migliore risultato possibile. E sì, può capitare che costituisca un limite alla loro espressione artistica, ma - nei casi in cui tutto funziona bene - è un modo per valorizzarla ancora di più. Se mi concedete il paragone alto rubato da Kant, un buon produttore è come la resistenza dell’aria per un colombo: questi potrebbe pensare che volerebbe meglio nel vuoto, ma in realtà è proprio quello che gli permette di staccarsi da terra.
E come ci siamo detti infinite volte, il lavoro continua ancora dopo le riprese, dopo il montaggio, dopo l’uscita del film. Perché se vuoi andare a prenderti quell’Oscar, quei premi o anche solo quell’incasso miliardario, devi combattere con le unghie e con i denti. Serve qualcuno che organizzi le proiezioni, che gestisca la promozione, che metta in campo tutti i suoi contatti per attivare le ospitate televisive, nei podcast, nei festival, sulla stampa e sul web. Tutto quel mondo della pubblicità che prima di Mad Men ci immaginavamo come fatto da folli egomaniaci manipolatori e che dopo Mad Men è rimasto uguale, ma con il whisky e le sigarette sempre in mano. Anche qui, c’è del buono ed è un pezzo importante del percorso per arrivare al Dolby Theatre e alzare quella statuetta.
OK, mi hai convinto, ma perché ne parli adesso? Perché tutto il giro su Marta Donà?
Grazie per le domande, simpaticə lettorə, e la risposta è legata al Festival di Cannes appena concluso. A trionfare, in barba a tutte le mie previsioni, è stato Un simple accident di Jafar Panahi, regista iraniano più che affermato e altrettanto perseguitato dal suo governo. Un titolo sicuramente da mettere in lista, almeno come concorrente per il Miglior film internazionale. Ma oggi ci interessa principalmente per il suo distributore nordamericano Neon, che si è accaparrata i diritti di Un simple accident pochi giorni prima che si portasse a casa la Palma d’Oro. E negli ultimi anni si è dimostrata essere una Marta Donà del cinema.
Anzi, se guardiamo i dati, Neon batte decisamente la manager. Nelle ultime sei edizioni del Festival di Cannes, la Palma d’Oro è sempre andata a un film di questa casa di produzione e distribuzione. E infatti dopo che quest’anno il miracolo si è ripetuto per la sesta volta di fila, sono partite non tanto le teorie del complotto, quanto piuttosto gli articoli di celebrazione per il fiuto di Neon, capace di riconoscere il cavallo su cui puntare.
Ma appunto, il lavoro di queste figure non si limita al prima e al durante, ma è fondamentale anche per il dopo e i risultati si sono visti. I film di Neon negli ultimi anni si sono spessissimo ritagliati ruoli di rilievo nella stagione dei premi, magari non dominando come al Festival di Cannes, ma comunque con ottimi risultati. Triangle of Sadness, Il mio amico robot, Anatomia di una caduta, Perfect Days, Flee sono tutti titoli che sono passati per le mani di Neon e hanno conquistato premi e Nomination. E poi ci sono i due casi più clamorosi: Parasite e Anora. Ebbene sì.
Sono state due delle vittorie più sorprendenti e sorprendentemente dominanti degli ultimi anni e non è un caso che siano entrambe di questa casa di produzione. Perché per entrambi i film c’è stato un lavoro certosino di promozione e diffusione, realizzato tutto in salita, combattendo con il coltello fra i denti contro i favoriti, in due delle edizioni più ricche e belle di sempre. Per Anora soprattutto, è passato da iniziative non convenzionali, che hanno evidentemente dimostrato che ci sono modi diversi per fare le cose e che a volte proprio questi sono più efficaci.
Sarà interessante vedere se riusciranno a ripetere l’exploit anche con Un simple accident. Certo, è un film straniero, quindi non è un compito facile. Eppure, con Parasite sono riusciti a convincere l’Academy a “superare la barriera di tre centimetri dei sottotitoli”, chissà che non ci riescano di nuovo.
E comunque in catalogo hanno già un altro film molto promettente di cui vi parlo dalla scorsa stagione…
Qualche notizia sparsa e poi i saluti
Archiviato definitivamente il Festival di Cannes (che in un modo o nell’altro si è infilato in ben tre numeri di Popcorn in Smoking), si torna alla calma. Stiamo per entrare nella fase estiva quando - nonostante le idee degli esercenti italiani - il pubblico si lancia in sala più a vedere grandi blockbuster che film d’autore che vincono i premi. E va bene così, anche perché io non vedo l’ora di vedere Superman e Fantastici Quattro di nuovo sul grande schermo. Un po’ meno l’ennesimo Jurassic World, ma chissà, magari mi sorprende… Ma ora passiamo alle news!
Fresca fresca di stanotte, è arrivato l’annuncio di un nuovo film di Robert Eggers. Sarà un adattamento del Canto di Natale di Dickens (quello con i fantasmi del Natale passato, presente e futuro per capirci) e pare che in lizza per Scrooge ci sia già Willem Dafoe. A me l’idea stuzzica tantissimo, anche se è talmente strana che sembra uscita da uno sketch del Saturday Night Live. L’unico vero dubbio è che si tratta del terzo film annunciato da questo regista in pochi mesi. Il che mi va benissimo, più Eggers c’è, più io sono contento, ma nono vorrei che facesse la fine di Guillermo del Toro con una pagina Wikipedia dedicata a tutti i progetti che non ha realizzato.
Mentre Neon guardava all’Iran, Netflix si è accaparrata i diritti di Nouvelle Vague, il nuovo film di Richard Linklater. Non ha vinto la Palma d’Oro, ma ne ho sentito parlare molto bene. Potremmo avere un altro titolo da tenere d’occhio: mi sa che per il prossimo numero di Popcorn in Smoking mi tocca rifare la lista su Letterboxd…
Vi ricordate quando un mesetto fa vi dicevo che c’era un bizzarro rumor su un film di Elden Ring, tanto bizzarro da fare il giro e diventare plausibile? Ecco, avevo ragione, come sempre. È stato ufficialmente confermato, sarà prodotto da A24 e diretto da Alex Garland. Gira voce che il protagonista sarà Kit Connor, anche se non mi è chiaro come sarà possibile adattare la storia del videogioco. Ne riparliamo almeno l’anno prossimo comunque.
And that’s a wrap! Grazie mille come sempre per essere arrivati fin qui nella lettura. Se avete dei consigli, delle richieste o delle domande, rimango totalmente a disposizione sul mio profilo Instagram, nei commenti qui sotto o al pulsante che trovate di seguito.
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Ci risentiamo presto,
Mattia